“Quând che Sa’ Zörz l’è vsen a Pasqua
E’ mònd l’andrà in burrasca”
Trad. “Quando San Giorgio (23 aprile) è vicino a Pasqua
Il mondo andrà in burrasca”
Questo antico proverbio romagnolo non è una semplice previsione meteorologica. Sulla popolazione, sia rurale che cittadina, una Pasqua molto alta faceva calare pensieri assai nefasti. Scontri tra Dio e il Diavolo, con conseguenze inimmaginabili.
Ci si affidava dunque a uno degli eroi cristiani per eccellenza, quel San Giorgio che uccise il drago, ovvero il male, il diavolo, l’uragano e quindi la burrasca.
Quandunque arrivasse, il popolo cercava nella Pasqua la salvezza e qualcuno che lo potesse salvare. L’oberato San Giorgio era invocato anche per altre attività:
“Pur Sa’ Zörz
U s’pianta l’ort”
Trad. “Per San Giorgio
Si Pianta l’orto”
In questo caso l’orto in questione è la cumarëra, ovvero l’orto dei cocomeri. Ad ogni modo:
“O elta o basa
L’é invëran insèna a Pasqua”
Trad. “Alta o bassa
È inverno fino a Pasqua”
Ma che fosse alta o bassa, la Pasqua segnava comunque la rinascita, il rinnovamento, la resurrezione. E anche la Natura non poteva ignorare la questione.
“Têrd la Pasqua
Têrd la Frasca”
Trad. “Tardi la Pasqua
Tardi la foglia”
E infine:
“S’è piöv int la Pelma
U n’ piöv int agl’ov”
Trad. “Se piove il giorni delle Palme
Non piove sulle uova – il giorno di Pasqua”
…che vale anche viceversa!
Ad ogni modo, la Pasqua archivia l’inverno con i suoi piatti caldi e saporiti.
Lascia spazio alla freschezza, ai prodotti stagionali, senza mai dimenticare i pilastri della nostra tradizione.
Il pranzo di Pasqua è ancora uno dei momenti più simbolici, e quasi rituali, in Romagna, come poi del resto in tutta Italia.
La tavola imbandita, preparata dalle azdore, cola di antipasti di erbe, asparagi, carciofi o affettati e un bel uovo sodo propiziatorio.
Poi i primi di pasta ripiena o al ragù. Lasagne, la tardura, che è una pappa fatta con gli ingredienti dei passatelli.
E infine, dall’incrocio tra tradizione ebraica e cristiana, l’agnello al forno o con i piselli oppure, in alternativa, coniglio in porchetta arrosto.
Per finire ovviamente l’uovo e la Colomba – naturale! – ma anche la ciambella e i Gialletti, ovvero i biscottini dell’Artusi. Facili da preparare anche in periodi di costrizione casalinga. La premessa originale è:
Signore mamme, trastullate i vostri bambini con questi gialletti; ma avvertite di non assaggiarli se non volete sentirli piangere pel caso molto probabile che a loro ne tocchi la minor parte.
- Farina di granturco, gr. 300
- Detta di grano, gr. 100
- Zibibbo, gr. 100
- Zucchero, gr. 50
- Burro, gr. 30
- Lardo, gr. 30
- Lievito di birra, gr. 20
- Un pizzico di sale
Con la metà della farina di grano e col lievito di birra, intrisi con acqua tiepida, formate un panino e ponetelo a lievitare. Frattanto impastate con acqua calda le due farine mescolate insieme con tutti gl’ingredienti suddetti, eccetto l’uva.
Aggiungete al pastone il panino quando sarà lievitato, lavoratelo alquanto e per ultimo uniteci l’uva.
Dividetelo in quindici o sedici parti formandone tanti panini in forma di spola, e con la costola di un coltello incidete sulla superficie d’ognuno un graticolato a mandorla.
Poneteli a lievitare in luogo tiepido, poi cuoceteli al forno o al forno da campagna a moderato calore onde restino teneri.
Impossibile poi non menzionare il ciambellone, entrato a fa parte dei nostri riti e delle nostre più antiche tradizioni.
Le forme più semplici e povere, venivano accostate a quelle più “ricche” che avevano sopra le codette, cioè piccoli granelli di zucchero che la impreziosivano. La friabilità e il profumo della ciambella sono e saranno sempre insostituibili.
In Romagna, forte della sua tradizione marinara, si può tranquillamente trovare una valida alternativa in un secondo a base di pesce come le seppie in umido con i piselli, un brodetto della tradizione o le intramontabili mazzancolle al sale.
Nelle nostre campagne il giovedì santo era usanza legare gli alberi da frutto, lo stesso giorno in cui venivano legate le campane della chiesa e iniziava un periodo di digiuno. Si pensava che, in questo modo, gli alberi avrebbero dato un raccolto più abbondante e che la nebbia non li avrebbe danneggiati.
Il sabato santo invece, quando le campane venivano sciolte, i contadini festeggiavano e tornavano a liberare i rami degli alberi legati due giorni prima. Anche le fanciulle, allo slegare delle campane, scioglievano i propri capelli per farli crescere più lunghi e voluminosi!
Gli uomini e le donne si lavavano il viso senza asciugarlo, pensando che ciò avrebbe permesso di avere una buona vista, mentre dopo la messa si udivano colpi di fucile o petardi: erano gli uomini che sparavano per uccidere Barabba, esplodendo sempre un numero dispari di colpi per non fare “le corna al Signore.”
Il giorno di Pasqua invece nel ravennate era diffuso anche il detto:
“E’ dè ‘d Pasqua e e’ dè ed Nadèl
Totti al galein a e’ su puler”
Trad. “Il giorno di Pasqua e di Natale
Ogni gallina nel suo pollaio”
ovvero: nel giorno di Pasqua le donne non andavano a far visita in casa altrui, poiché ciò avrebbe portato disgrazia, quindi ogni “gallina” restava nel proprio “pollaio.”
Il lunedì di Pasquetta è poi da tempo immemore la giornata dedicata a gite e feste campestri, sagre e avanzi. Accompagnati spesso dall’indulgente sensazione che per mettersi in riga, anche in Romagna, c’è sempre tempo. Almeno fino alla Pasqua successiva.