Pittore, collagista e disegnatore, ALBERTO BURRI nasce nel 1915 a Città di Castello, in Umbria, ed è probabilmente l’artista italiano ad aver dato il più importante contributo al panorama artistico internazionale nel secondo dopoguerra. La sua ricerca artistica spazia dalla pittura alla scultura, avendo come unico fine l’indagine sulle qualità espressive della materia.
Nel 1943 viene catturato in nord Africa mentre presta servizio come medico nell’esercito italiano, e nel 1944, prigioniero di guerra a Hereford, Texas, inizia a dipingere utilizzando qualunque materiale riuscisse a trovare, compresi i sacchi di iuta.
Dopo la guerra si stabilisce a Roma e abbandona la medicina per l’arte. Dopo un viaggio compiuto nel 1948 a Parigi, Burri mette a punto un proprio linguaggio rivolgendo un interesse particolare ai materiali ritenuti extra-pittorici come il catrame, la pietra pomice, le colle.
Ben presto la pittura di Burri conquista la scena artistica nazionale e internazionale per la forte carica evocativa e drammatica del suo linguaggio pittorico, che lo designa come “l’artista della materia“.
A contrassegnare in modo evidente tutte le fasi della ricerca di Burri è sempre l’uso di materiali extra-artistici. Dal catrame, al legno, dalle plastiche combuste, alle lamine di ferro saldate. La serie più famosa di opere dell’artista è quella dei Sacchi, avviata nel 1950-51.
La svolta fondamentale della carriera di Burri inizia nel 1953, quando il direttore del Guggenheim Museum di New York espone due suoi lavori in una grande mostra, proponendo una lettura drammaticamente esistenzialista delle sue opere.
In questa occasione Burri ottiene un grande successo internazionale grazie alla qualità del suo lavoro. È uno dei primi artisti a sperimentare la forza evocativa dei materiali di scarto, anticipando il movimento dell’arte povera, nato in Italia alla fine degli anni Sessanta.
“La mia pittura è una realtà che è parte di me stesso, una realtà che non posso rivelare con le parole. Le parole non significano niente per me e se parlano intorno alla pittura ciò che io voglio esprimere appare nella pittura.”
(Alberto Burri)
IL LEGAME DI BURRI CON RAVENNA
Il forte legame di Burri con Ravenna risale alla fine degli anni ’80, ed è un legame importante perché segna la sua finale produzione artistica. Il primo momento di contatto fra Ravenna e Burri si ha nel 1988, in occasione di una mostra curata da Claudio Spadoni nel refettorio di San Vitale. Qui Burri entra in relazione con il monumento simbolo di Ravenna e soprattutto con i mosaici bizantini.
Negli anni ’90 a Ravenna Burri avvia una collaborazione con il Gruppo Ferruzzi che lo porta alla realizzazione di alcuni cicli pittorici significativi che egli elabora e denomina in differenti modi e in stretta relazione con la storia artistica della città. Con il “Ciclo S. Vitale” realizza grandi cellotex dipinti ad acrilico di color nero. A quella serie di grandi opere affianca la produzione di opere grafiche di pari intensità e forza cromatica.
Nell’ambito dell’VIII Biennale di Mosaico Contemporaneo, da ottobre 2023 a gennaio 2024, con la grande mostra BURRIRAVENNAORO allestita al MAR – Museo d’Arte della Città di Ravenna, in collaborazione con la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, si è celebrato il forte legame tra Ravenna e l’artista, attraverso più di 100 opere esposte.
Tra di esse, anche i progetti e i bozzetti concepiti per la committenza Gardini (mai realizzata) e alcuni filmati che documentano l’artista al lavoro, insieme al catalogo della mostra con saggi critici di Bruno Corà, Francesco Moschini, Roberto Cantagalli e Daniele Torcellini e documenti delle opere esposte al MAR.
IL GRANDE FERRO R
Il Grande Ferro R (restaurato nell’estate 2024) è l’ultima opera scultorea di Alberto Burri, del 1990. Un intervento site-specific per il complesso del Palazzo delle Arti e dello Sport di Ravenna, dedicato a Mauro De André. L’opera fu commissionata da Raul Gardini tramite l’architetto Francesco Moschini e la collaborazione dell’architetto Carlo Maria Sadich.
È costituita da 10 elementi in ferro verniciato di rosso, sagomati secondo profili a linee spezzate e disposti in cinque coppie una di fronte all’altra, di nove metri di altezza. Formano cinque soglie, racchiuse in un basamento circolare. Richiama un’altra opera del maestro, già presentata ai Giardini della Biennale di Venezia del 1984 e ripresa anche in un Cellotex esposto a Parigi.
L’artista aveva certamente considerato la storia imperiale e la sua relazione col porto, così come la prossimità della Darsena e l’aspetto della zona (molto diverso dall’attuale), che si apriva direttamente verso l’orizzonte e la pineta.
L’opera si presta a numerose interpretazioni: il Grande Ferro R pare voler essere una scenografia teatrale, che racchiude e allude alla relazione tra la città e la natura. Può essere letta come la rievocazione di una stilizzata carena di nave rovesciata, abbandonata, ed emblematicamente aperta verso i lidi e il mare.
Per alcuni ravennati appassionati di sport poteva evocare due mani umane, data la collocazione nell’area del Palazzetto che vedeva le gloriose gesta del Messaggero Ravenna e della Teodora, in quegli anni dominatori dei campionati italiani e internazionali di pallavolo.
IL GRANDE CRETTO
Il Cretto di Gibellina, titolo originale Grande Cretto, è un’opera di land art realizzata da Alberto Burri, lì dove un tempo sorgeva la città di Gibellina vecchia in Sicilia e che andò distrutta in seguito al terremoto del 15 gennaio 1968. Un evento talmente grave che provocò 1150 vittime, 98.000 senzatetto e sei paesi distrutti nella valle del Belice, in provincia di Trapani.
Burri rimase talmente colpito dall’accaduto, che non tardò a rispondere alla chiamata del sindaco Ludovico Corrao, che chiese l’aiuto di artisti ed architetti nelle iniziative di ricostruzione della città.
Ricordiamo che già negli anni Settanta, Burri aveva realizzato alcune opere utilizzando proprio la tecnica del cretto, ad esempio per i musei di Capodimonte e di Los Angeles. Così, alla vista delle macerie di Gibellina Vecchia, a Burri venne l’idea di realizzare uno dei suoi Cretti, questa volta su scala ambientale.
I lavori del Cretto di Burri, avviati negli anni ’80 e poi interrotti, sono stati ultimati nel maggio del 2015, quindi ben trent’anni dopo il suo inizio e a vent’anni dalla sua morte, ma l’opera è stata portata a termine, proprio come lui l’aveva progettata ed è una tra le opere d’Arte Contemporanea più estese al mondo ed uno dei rari esempi di Land Art in Italia.
Le rovine della cittadina siciliana sono state ricoperte con 80 mila metri quadri di cemento bianco e detriti, per raccontare la storia di una città scomparsa dalle cartine geografiche. I suoi vicoli, che sono anche gli stessi che percorrevano il paese, ora sono diventati bianche e profonde ferite del terreno e ci accompagnano in un cammino della memoria, dal grande valore culturale e sociale, in ricordo di questa triste vicenda.